Saperi negati

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Raccolta di Saperi e Pensieri negati (ai più) dall'inconsapevolezza (altrui e propria) e da altre Cause.

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    Il bisogno di utopia e la fine della politica moderna?

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    Il bisogno di utopia e la fine della politica moderna? Empty Il bisogno di utopia e la fine della politica moderna?

    Messaggio Da nelda Dom 23 Nov 2008, 03:42

    Il bisogno di utopia e la fine della politica moderna?
    Scritto da Enzo Risso
    Mar 21 Ottobre 2008




    La fine della politica moderna?

    La contemporaneità porta con sé la fine delle ideologie,
    delle grandi narrazioni.
    Il processo, in realtà, non si è sviluppato negli
    ultimi dieci anni. È un percorso lungo che, come gia segnalava Daniel Bell nel
    1950, radica, da un lato, nel disallineamento tra le promesse contenute nel
    “verbo” ideologico e i problemi reali della società e, dall’altro lato,
    nell’omologazione dogmatica dei percorsi proposti. A questi fattori, specie per
    quanto riguarda l’ideologia socialisteggiante e comunisteggiante, si va ad
    aggiungere lo svuotamento della spinta verso il fine, rappresentato dal welfare
    state, che ha reso anocronistica, nella politica socialdemocratica, la scelta
    del cambiamento radicale della società.

    Quella che si è andata affermando nel corso degli ultimi 50 anni è stata, sul fronte dei fini e
    dell’agire politico, una tendenza che possiamo definire “rinunciataria” (come
    la chiamerebbe Rorty). Una politica che ha scambiato i mezzi per fini e che ha
    rinunciato allo sviluppo di una critica permanente della società, per lo
    sviluppo di scelte e azioni contingenti.
    Si tratta di una politica dal pensiero “corto”, che ha smesso di essere risposta ai bisogni cogenti, sempre più complessi e articolati, della contemporaneità postmoderna.

    La politica, infatti, radica le proprie risorse e la propria funzione, nella
    capacità di fornire risposte. Ovvero, nella attitudine a comprendere le nuove
    forme di oppressione, diversificazione, disarmonizzazione e disallineamento
    sociale e a fornire loro soluzioni; nella tendenza a individuare nuovi diritti
    e a costruire percorsi di avvicinamento e riconoscimenti di questi; nella
    volontà di essere e rimanere spazio pubblico, arena di confronto degli interessi
    collettivi e non mera rappresentazione delle sollecitudini e pressioni
    corporative o di singole parti.
    La politica trova ragione nella funzione
    specifica di articolare e coniugare le domande contraddittorie (come, ad
    esempio, quella di più libertà e più sicurezza), di ricomporle in un quadro
    capace non solo di contenere le diverse esigenze, ma di superarle in una
    dimensione articolata, equilibrata e simmetrica.

    La tendenza alla depoliticizzazione e all’estetizzazione della politica, non sono solo il frutto
    di un processo di individualizzazione e di ritiro delle coscienze, sono il
    portato di un fallimento: quello della politica e della sua capacità di
    comprendere la società e le sue trasformazioni; quello di aver lasciato che al
    posto delle ideologie, si insediasse, nel mondo politico, il linguaggio, la
    logica e la filosofia del mercato e del marketing. Si è lasciato che i concetti
    del mercatismo sostituissero, in politica, il ruolo della compenetrazione e del
    confronto di idee, visioni e progetti.
    Dice lo scrittore Claudio Magris, “In ogni epoca c’è una cultura predominante che tende a imporre la propria visione del mondo e il proprio linguaggio. […] Oggi tale egemonia appare esercitata dall’economia; l’Università, l’ospedale, l’intero paese diventano un’azienda.
    […] Questa invadenza totalizzante è sospetta, come ogni formula totalitaria che
    tenda a inglobare e dunque a fondere e confondere ogni cosa”.

    Fine delle ideologie. Affermazione del pensiero “corto”. Estetizzazione e mercatizzazione
    della politica. Frammentazione dei bisogni e delle risposte. Debolezza dei
    movimenti e loro incedere di breve durata. Crisi dei partiti e della forma
    partito. Sono tutti fenomeni di cui si è discusso a lungo. Ma qual è la loro
    portata storica e complessiva?
    La risposta, in qualche modo e suo malgrado,
    l’ha fornita lo storico Francis Fukuyama, il quale nel 1989 ha decretato la
    vittoria del mercatismo, dell’homo oeconomicus, sull’uomo politico. Lo storico
    americano, di origini giapponesi, afferma che la storia, intesa come evoluzione
    lineare, è terminata, è giunta al capolinea poiché è terminata l’aspirazione a
    sviluppare alterative alla democrazia liberale .

    Il punto nodale, se vogliamo, è proprio quello toccato da Fukuyama.
    La contemporaneità della politica ha perso ogni sua capacità immaginifica.
    Ha perso la proiezione, l’alternativa. Ha perso il pensiero critico, la necessità
    di osservare, analizzare, capire, delineare, criticare e, quindi, intervenire per cambiare.
    Quello cui assistiamo non è la fine ella storia, bensì la fine della politica
    moderna, con i suoi partiti, le sue proiezioni, le sue forme istituzionalizzate
    di azione e contestazione.

    Il problema di fondo non è quello di dare
    risposte alle singole trasformazioni, ma individuare un percorso, una via
    d’uscita.


    Il ritorno all’utopia


    Il filosofo Slavoj Zizek afferma che oggi è più che mai necessario
    mantenere aperto “lo spazio utopico di un’alternativa globale” al sistema
    contemporaneo. E a chi gli fa notare che ne mancano i contenuti, il filosofo
    ribadisce la necessità lasciare aperta la porta dell’utopia “anche se tale
    spazio deve restare vuoto in attesa di un contenuto” .

    Il termine utopia, come si ricava dalla sua matrice greca
    (è coniato sulle parole ou – “non” – e topos – “luogo”)
    indica una specie di non-luogo, un qualcosa che non esiste, ma
    presuppone anche che, chi professa un’ipotesi utopica abbia fede nella propria
    immaginazione politica, creda “che il migliore dei mondi non sia soltanto
    pensabile, ma anche possibile” .

    Nella dimensione politica moderna, il termine “utopia” ha assunto un valore negativo.
    Essa è divenuta sinonimo di astrazione, di favola raccontata. Spesso, inoltre,
    si è sovrapposto questo termine con quello di ideologia. Un esempio tipico è offerto da Mannheim, il quale assimila il termine utopia a quello di ideologia. Per il sociologo tedesco
    esistono le ideologie rivoluzionarie (il comunismo e le idee libertarie), che
    sono per lui le utopie, e le ideologie vere e proprie, ovvero quelle conservatrici .

    Negli ultimi 50 anni il dibattito sull’utopia si è
    sempre più delineato non tanto come capacità profetica, di progettare una
    società in cui le persone siano felici (in quanto vedono soddisfatte le loro
    aspirazioni correnti), quanto la capacità di avviare un processo di mutamento
    permanente della società che piaccia a chi la vive. Una società non per gli
    uomini per come sono oggi, ma per coloro che la vivranno.

    Forse, per rimettere in piedi, su un binario meno astratto, il tema dell’utopia e per
    comprenderne il valore nella contemporaneità post-ideologica e post-politica, è
    utile riallacciarsi all’interpretazione classica di utopia fornita da Bloch e da
    Wells, o anche da Marcuse, in cui il percorso dell’utopia è superamento della
    rassegnazione per la contemporaneità e per la società come è, al contempo, non è
    il disegno astratto futuribile, ma si radica in una proiezione massimizzata
    degli elementi positivi della società in cui si vive.

    Il bisogno di utopia è, quindi, necessità di tornare alla critica della società di oggi, dei
    suoi fondamenti sociali ed economici, del suo sistema di vita e di quotidianità,
    è comprendere e scandagliare i fattori di crisi e di malessere, per cercare di
    delineare un percorso di fuoriuscita. È la negazione di qualunque forma di
    rassegnazione per l’immutabilità del contesto ed è la volontà di tornare a
    costruire una politica incardinata su pensieri “lunghi”, mirando a una
    palingenesi del modo di vivere quotidiano delle persone e non solo della società
    e dei suoi macro-sistemi.

    Si tratta di pensare alla politica non come
    “storia promessa”, né al fine come certo e ineluttabile, iscritto nella forza
    delle cose, bensì come un processo costante e permanente di trasformazione delle
    storture e di edificazione di nuovi equilibri rispettosi delle libertà delle
    persone e delle loro esigenze umane più complesse.

    Il benessere cui tendere non è solo quello materiale, è una concezione di felicità che non si può definire a priori, bensì come movimento costante a limare e limitare le
    contraddizioni, le distonie, i conflitti e le precarietà e incertezze.


    Il bisogno di utopia è l’urgenza di pensare e lavorare per migliorare e
    trasformare la società di oggi, colpendo e incidendo sui suoi fattori
    distorsivi.
    Essa fonda non un progetto riformistico classico, ma delinea la
    capacità di costruire un percorso dal basso, fondato sulle genti e le persone,
    volto a rivoluzionare il modo di vivere e produrre, lavorare e stare insieme. Si
    parte dall’oggi, per guardare al domani.

      La data/ora di oggi è Ven 26 Apr 2024, 10:24