A 250 milioni di anni luce il buco nero della galassia NGC 1275
emette un “sì” talmente basso da non poter essere udito da orecchio
umano. In un’immaginaria tastiera di pianoforte lunga a piacere la nota
si trova 57 ottave sotto il “do” centrale. Il suono emesso dal buco
nero ha una lunghezza d’onda di 36 mila anni luce e con la sua possanza
scalda la gigantesca nube di gas e polveri che circonda il buco nero.
La nota celestiale è prodotta, secondo Andy Fabian di Cambridge, autore
della “osservazione”, dalla tremenda energia liberata dal buco nero che
increspa i gas che gli fan corona.
E’ consolante che la scienza moderna torni a parlare di una sorta di
musica delle sfere, che accompagna l’osservazione dei cieli da qualche
millennio prima di Cristo. Già Dante nel Paradiso raccoglieva
un’eredità secolare quando cantava:
“Quando la rota, che tu sempiterni
Desiderato, a sé mi fece atteso,
Con l’armonia che temperi e discerni,
Parvemi tanto, allor, del cielo acceso
De la fiamma del sol, che pioggia o fiume
Lago non fece mai tanto disteso”. (Par I, 76-81)
Questa mistica unione di armonia prodotta dalla “girazione” delle
sfere celesti con la luce onnispandente si ritrova in Cicerone, che a
Scipione Aureliano fa ascoltare, durante il sonno, la medesima musica,
e che gli fa chiedere, stupito:
“Quid?, hic - inquam - quis est, qui complet aures meas tantus
et tam dulcis sonus?”. “Hic est - inquit - ille, qui intervallis
coinunctus imparibus, sed tamen pro rata parte ratione distinctis,
impulsu et motu ipsorum orbium efficitur et acuta cum gravibus
temperans varios aequabiliter concentus efficit; nec enim silentio
tanti motus incitari possunt, et natura fert, ut extrema ex altera
parte graviter, ex altera autem acute sonent. (Somnium Scipionis)
“Ma che suono è questo, così intenso e armonioso, che riempie le
mie orecchie?”. “È il suono”, rispose, “che sull’accordo di intervalli
regolari, eppure distinti da una razionale proporzione, risulta dalla
spinta e dal movimento delle orbite stesse e, equilibrando i toni acuti
con i gravi, crea accordi uniformemente variati; del resto, movimenti
così grandiosi non potrebbero svolgersi in silenzio e la natura
richiede che le due estremità risuonino, di toni gravi l’una, acuti
l’altra”.
Anche Keplero, sulla soglia ancora spuria della scienza meccanicistica moderna,
dà per scontata l’armonia del mondo:
“Duo sunt, quae nobis harmonias in rebus naturibus patefaciunt, vel lux vel sonus”
(Harmonice Mundi, liber V caput IV)
Andando a ritroso le prime testimonianze che attestano l’esistenza di una musica
celeste risalgono a Pitagora,
il quale secondo Giamblico era in grado di udire l’armonia
degli astri come in stato di trance.
Secondo la teoria pitagorica, la stoffa dell’Universo era composta di
ritmi, numeri e proporzioni; e considerando che gli intervalli muscali
quali l’ottava, la quinta, la terza si potevano ottenere facendo
vibrare corde le cui lunghezze erano frazioni intere della lunghezza
della nota fondamentale, lo stesso si poteva dire per il cosmo come
sistema armonico, i cui sette “pianeti” conosciuti (Sole, Luna e i
cinque pianeti visibili) potevano essere messi in corrispondenza con le
sette note naturali.
Affascinato ma non convinto da Pitagora, Aristotele
spiegava col suo solito sussiego il perché i mortali non possono udire
la celeste armonia: un suono o un rumore non vengono percepiti se non
in contrasto con il proprio opposto, il silenzio o meglio l’assenza del
suono medesimo; dal momento che quello prodotto dalla rotazione delle
sfere planetarie è un suono che ci è presente sin dalla nascita, non è
possibile riconoscerlo, in quanto ci manca la percezione del suo
contrario. Salvo poi Aristotele non credere all’esistenza di questa
musica, perché “se esistesse un suono prodotto dalla rotazione degli
astri, sarebbe talmente forte e intenso da distruggere la vita sulla
Terra, cosa che non è”.
Comune a tutte queste dottrine è la possibiltà solo per alcuni
privilegiati di ascoltare la musica delle sfere: lo Scipione
ciceroniano a patto che sogni, Dante nel suo viaggio oltreterreno, il
mito di Er della Repubblica di Platone, Pitagora nei suoi estatici
deliqui intellettuali.
I moderni la musica del cosmo invece la fotografano con un
telescopio a raggi X, nelle sembianze di un’increspatura in una nuvola
di gas e polvere nel remoto ammasso di Perseo. O la ipotizzano, come i
fisici francesi Marc Lachièze-Rey e Jean-Pierre Luminet,
nell’infinitamente piccolo delle supercorde.
fonte: Nature: “Black hole makes deepest-ever note”
emette un “sì” talmente basso da non poter essere udito da orecchio
umano. In un’immaginaria tastiera di pianoforte lunga a piacere la nota
si trova 57 ottave sotto il “do” centrale. Il suono emesso dal buco
nero ha una lunghezza d’onda di 36 mila anni luce e con la sua possanza
scalda la gigantesca nube di gas e polveri che circonda il buco nero.
La nota celestiale è prodotta, secondo Andy Fabian di Cambridge, autore
della “osservazione”, dalla tremenda energia liberata dal buco nero che
increspa i gas che gli fan corona.
E’ consolante che la scienza moderna torni a parlare di una sorta di
musica delle sfere, che accompagna l’osservazione dei cieli da qualche
millennio prima di Cristo. Già Dante nel Paradiso raccoglieva
un’eredità secolare quando cantava:
“Quando la rota, che tu sempiterni
Desiderato, a sé mi fece atteso,
Con l’armonia che temperi e discerni,
Parvemi tanto, allor, del cielo acceso
De la fiamma del sol, che pioggia o fiume
Lago non fece mai tanto disteso”. (Par I, 76-81)
Questa mistica unione di armonia prodotta dalla “girazione” delle
sfere celesti con la luce onnispandente si ritrova in Cicerone, che a
Scipione Aureliano fa ascoltare, durante il sonno, la medesima musica,
e che gli fa chiedere, stupito:
“Quid?, hic - inquam - quis est, qui complet aures meas tantus
et tam dulcis sonus?”. “Hic est - inquit - ille, qui intervallis
coinunctus imparibus, sed tamen pro rata parte ratione distinctis,
impulsu et motu ipsorum orbium efficitur et acuta cum gravibus
temperans varios aequabiliter concentus efficit; nec enim silentio
tanti motus incitari possunt, et natura fert, ut extrema ex altera
parte graviter, ex altera autem acute sonent. (Somnium Scipionis)
“Ma che suono è questo, così intenso e armonioso, che riempie le
mie orecchie?”. “È il suono”, rispose, “che sull’accordo di intervalli
regolari, eppure distinti da una razionale proporzione, risulta dalla
spinta e dal movimento delle orbite stesse e, equilibrando i toni acuti
con i gravi, crea accordi uniformemente variati; del resto, movimenti
così grandiosi non potrebbero svolgersi in silenzio e la natura
richiede che le due estremità risuonino, di toni gravi l’una, acuti
l’altra”.
Anche Keplero, sulla soglia ancora spuria della scienza meccanicistica moderna,
dà per scontata l’armonia del mondo:
“Duo sunt, quae nobis harmonias in rebus naturibus patefaciunt, vel lux vel sonus”
(Harmonice Mundi, liber V caput IV)
Andando a ritroso le prime testimonianze che attestano l’esistenza di una musica
celeste risalgono a Pitagora,
il quale secondo Giamblico era in grado di udire l’armonia
degli astri come in stato di trance.
Secondo la teoria pitagorica, la stoffa dell’Universo era composta di
ritmi, numeri e proporzioni; e considerando che gli intervalli muscali
quali l’ottava, la quinta, la terza si potevano ottenere facendo
vibrare corde le cui lunghezze erano frazioni intere della lunghezza
della nota fondamentale, lo stesso si poteva dire per il cosmo come
sistema armonico, i cui sette “pianeti” conosciuti (Sole, Luna e i
cinque pianeti visibili) potevano essere messi in corrispondenza con le
sette note naturali.
Affascinato ma non convinto da Pitagora, Aristotele
spiegava col suo solito sussiego il perché i mortali non possono udire
la celeste armonia: un suono o un rumore non vengono percepiti se non
in contrasto con il proprio opposto, il silenzio o meglio l’assenza del
suono medesimo; dal momento che quello prodotto dalla rotazione delle
sfere planetarie è un suono che ci è presente sin dalla nascita, non è
possibile riconoscerlo, in quanto ci manca la percezione del suo
contrario. Salvo poi Aristotele non credere all’esistenza di questa
musica, perché “se esistesse un suono prodotto dalla rotazione degli
astri, sarebbe talmente forte e intenso da distruggere la vita sulla
Terra, cosa che non è”.
Comune a tutte queste dottrine è la possibiltà solo per alcuni
privilegiati di ascoltare la musica delle sfere: lo Scipione
ciceroniano a patto che sogni, Dante nel suo viaggio oltreterreno, il
mito di Er della Repubblica di Platone, Pitagora nei suoi estatici
deliqui intellettuali.
I moderni la musica del cosmo invece la fotografano con un
telescopio a raggi X, nelle sembianze di un’increspatura in una nuvola
di gas e polvere nel remoto ammasso di Perseo. O la ipotizzano, come i
fisici francesi Marc Lachièze-Rey e Jean-Pierre Luminet,
nell’infinitamente piccolo delle supercorde.
fonte: Nature: “Black hole makes deepest-ever note”
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