MEGATRUFFA:
IL FORMAGGIO AVARIATO FINIVA NELLE BUSTE DI GRATTUGIATO
La Procura di Piacenza continua le indagini di Cremona.
Coinvolte marche famose come Galbani, Biraghi e Prealpi.
Alcune di esse smentiscono.
Ritiravano tonnellate di scarti di formaggio avariato da grandi
aziende e lo riciclavano in gran parte come formaggio grattugiato, venduto ad
aziende che lo confezionano in buste dai nomi famosi come Galbani, Ferrai,
Meneghini, o direttamente al cliente finale come Biraghi o Prealpi. La Biraghi
nega, con un comunicato stampa, di essere coinvolta nelle indagini. Lo stesso fa
la Galbani, mentre la Granarolo, chiamata in causa in maniera indiretta, con una
lettera a Repubblica precisa di aver "sempre fornito a Delia S.p.A., società in
possesso delle prescritte autorizzazioni, nell'ambito di regolare rapporto
contrattuale, prodotti con caratteristiche e qualità assolutamente idonee, oltre
che conformi alla normativa vigente per l'alimentazione umana, al solo fine
della successiva trasformazione industriale. Tali prodotti - continua la lettera
- erano sempre in regola con le date di scadenza, in corretto stato di
conservazione ed in regolari condizioni igienico sanitarie". La Granarola, a
tesimonianza della sua buona fede, assicura di non essere stata neppure
ascoltata dai magistrtai inquirenti.
Tocca a loro, comunque, dire l'ultima parola e separare i buoni dai cattivi,
in questa orribile vicenda che ha abusato della fiducia dei consumatori.
Inchiesta sconvolgente
E’ sconvolgente, comunque, la seconda tranche dell’inchiesta sullo “spaccio”
dei formaggi avariati, iniziata due anni fa a Cremona e continuata ora dai
magistrati di Piacenza e dal Pm piacentino Antonio Colonna, riportata stamattina
da alcune anticipazioni del quotidiano la Repubblica e di Rainews 24. Ma
dell’inchiesta di Cremona si era, a suo tempo, occupato con dovizia di
particolari anche il settimanale Il Salvagente (vedi articolo allegato).
Tutto ruota intorno a Delia
La novità dopo la prima tranche
dello scandalo sui formaggi adulterati che ha scosso l’industria alimentare
italiana, è tutta nell’ultimo nome che emerge dalle carte della guardia di
Finanza di Cremona. La Delia Spa, ditta specializzata nella produzione e
commercializzazione di prodotti a base di latte destinati all’industria
alimentare e lattiero casearia, con sede a Monticelli d’Ongina (Piacenza).
Sarebbe proprio la Delia, il pezzo finale dell’inchiesta di Cremona che
già all’inizio di luglio aveva portato alla luce un traffico sconcertante:
11mila tonnellate di formaggi andati a male ma venduti in totale spregio della
legge e della salute dei consumatori.
Alimenti (difficile davvero
chiamarli così) che contenevano di tutto: vermi, escrementi di topi, pezzi di
ferro, residui di plastica tritata, muffe, inchiostro. Questi scarti da
smaltire, destinati a uso zootecnico, diventavano invece fette per toast,
formaggio fuso, mozzarelle, formaggio grattugiato, provola, stracchino,
gorgonzola, e finivano nei supermercati italiani e europei.
Filiali dalla Spagna al Regno Unito
Un pezzo da 90, la Delia, con filiali sparse
dalla Spagna al Regno Unito che, secondo gli inquirenti, si occupava di
triangolare e riciclare il formaggio avariato della Tradel e della Megal (le
aziende di proprietà di Domenico Russo chiuse dalla guardia di finanza nel
giugno 2007) di cui figurava come cliente e fornitore. E tra i fornitori della
Delia, c’erano big del calibro di Kraft e Granarolo.
Collegamento con le due aziende finite nella rete degli inquirenti Alberto Aiani,
imprenditore molto noto a Cremona, originario di Partitico, in Sicilia,
proprio come Domenico Russo.
È lui il proprietario della Delia, l’azienda presso la quale i
finanzieri hanno sequestrato 80 tonnellate di prodotti scaduti. Nella sua
azienda, tra l’altro, sono stati trovati due timbri sanitari della Asl lasciati
da un veterinario conniventi (Luciano Dall’Oglio) che risulta indagato e sul cui
carico pesano alcune intercettazioni che dimostrerebbero la connivenza del
funzionario che teneva rapporti con il direttore della fabbrica (Francesco
Marinosci ex comandante della stazione dei carabinieri di Casalbuttano (il paese
dove aveva sede la Tradel).
Ancora in piena attività
La cosa preoccupante, secondo l’inchiesta di Repubblica e Rainews 24,
è che la Delia è ancora in piena attività.
Nessun provvedimento cautelare è stato emesso nei
confronti della ditta o dei suoi proprietari o, ancora del veterinario
compiacente, dato che il Gip ha stralciato questa parte delle indagini per
trasferirla al procuratore di Piacenza Antonio Colonna (per competenza).
E per tutto agosto non è stata presa nessuna misura.
LA PRIMA TRANCHE: L'INCHIESTA DI CREMONA
Lorenzo Misuraca
Sullo scandalo dei formaggi avariati di Cremona, che all’inizio
di luglio è finito su tutti i giornali, non tutto è stato detto. A cominciare
dai nomi dei prodotti sospetti ritrovati sugli scaffali di negozi e
supermercati. Le foto e i video della Guardia di Finanza, ripresi da
“Repubblica” e da Rainews 24, mostravano prodotti caseari totalmente ricoperti
da muffe, escrementi di topi, frammenti di plastica, all’interno di un’azienda
di trasformazione a Casalbuttano, vicino a Cremona. Ai consumatori scioccati è
stato raccontato nei dettagli il meccanismo con cui la Tradel e la Megal (le due
aziende di Domenico Russo, chiuse nel giugno 2007) riciclavano formaggio andato
a male per rimetterlo in commercio, invece di smaltirlo o destinarlo agli
animali. Sono venuti fuori i nomi delle grosse ditte che mandavano il materiale
scaduto alla Tradel (con qualche sbaglio, come nel caso della Granarolo,
erroneamente inserita nella lista delle aziende coinvolte). Ma sulla
destinazione finale di quei prodotti, pericolosi per la salute dei consumatori,
nemmeno una parola.
Un silenzio imbarazzante che non ci ha convinti. E che
ci ha spinti a lavorare ancora su uno scandalo dai troppi lati oscuri. A partire
dal ruolo di molte grandi industrie italiane.
Elenco da brividi
Andiamo con ordine. Il prodotto avariato, una volta “ripulito”, veniva
venduto al cliente finale, che lo metteva in commercio come formaggio fuso,
simile alle sottilette, e come gran mix, confezioni di formaggio grattugiato. In
alcuni casi, addirittura, i prodotti venivano lavorati senza fusione o
pastorizzazione, e quindi senza alcuna sanificazione, con tutto il carico di
potenziali rischi per chi li avrebbe consumati. Come se non bastasse, a volte un
prodotto, se invenduto o scaduto, veniva rimandato alla Tradel che lo riciclava
per la seconda volta.
Ma chi sono questi “clienti finali” che poi piazzavano
i prodotti nei supermercati? Sono 27 le ditte principali, di cui 14 straniere,
tra olandesi, francesi, austriache, spagnole, belghe e tedesche. Va chiarito che
questi clienti finali erano inconsapevoli dell’origine del materiale caseario
acquistato da Russo. Sarebbero, insomma, state truffate, anche se nei loro
confronti è lecito ipotizzare per lo meno una superficialità di controlli,
almeno per i casi in cui i formaggi arrivavano ancora col loro carico di tossine
e muffe.
Tra i clienti italiani, che non risultano tra i fornitori, ci sarebbero:
Prealpi Spa di Varese (che produce formaggi freschi, burro e mix di
formaggi grattugiati a proprio marchio), Dalì Spa di Treviso (produttrice dei
tortellini Dalì), Emilio Mauri Spa di Lecco (con i formaggi freschi e stagionati
a marchio Mauri), e Integrus Srl di Treviso (che produce crespelle al prosciutto
e formaggio, con marchio proprio).
C’è poi l’elenco delle aziende sia
fornitrici che clienti della Tradel. Tra queste ultime la Lactalis (che in
Italia commercializza formaggi Galbani, President, Invernizzi, Locatelli,
Cademartori), Fallini Formaggi Srl di Reggio Emilia (che produce formaggi
grattugiati con i marchi Fallini, Casa Emilia, Italiana Formaggi, Real Parma e
Margaldo), e Sic.Al di Partinico.
Purtroppo l’elenco non si esaurisce qui:
continua con i fornitori della Tradel: Brescialat, Caseificio Castellan Urbano,
Euroformaggi, Industria casearia Ferrari Giovanni, Frescolat, Giovanni Colombo
Spa, Igor Srl, Industria agricola casearia Meneghini, Venchiarini società
cooperativa, e Centrale del latte di Firenze, Pistoia, Livorno. Su quest’ultima,
in particolare, gli inquirenti hanno trovato documentazione che testimonierebbe
un atteggiamento “disinvolto”. La ditta, infatti, avrebbe inviato alla Tradel
prodotti scaduti già da due mesi, in evidente stato di fermentazione.
Smaltiti... in tavola
Alla Galbani, gli inquirenti dedicano un
capitolo a parte. Quello della Egidio Galbani Spa è stato uno dei primi nomi a
finire sui giornali come possibile corresponsabile della frode al cui centro
stava Domenico Russo. Coinvolte nelle indagini sono infatti due aziende della
Lactalis Italia Spa: la Egidio Galbani e la Big Srl. La Galbani vendeva a Tradel
prodotti semilavorati, per lo più scarti di produzione e residui di lavorazione.
La Big forniva prodotti confezionati, invenduti o ritirati dal mercato perché
scaduti o per problemi qualitativi o d’imballaggio. L’azienda ha smentito
prontamente qualsiasi coinvolgimento nell’inchiesta e lo fa anche
nell’intervista del suo amministratore delegato che compare in queste pagine.
Dall’inchiesta, però, emergono aspetti inquietanti a carico di alcuni suoi
dipendenti.
Due fatti, per esempio, sono documentati attraverso riscontri
documentali e intercettazioni. Il primo dimostra come diversi prodotti, inviati
nel 2004 e 2005 da Galbani a Tradel con etichetta cagliata a uso zootecnico, e
dunque non utilizzabili per produrre formaggi destinati all’uomo, nel 2006
vengono inviati con lo stesso codice, ma con una dicitura generica, “cagliata”,
che permette l’impiego del materiale anche per trasformazione alimentare. Un
errore? Le ipotesi degli inquirenti non sembrano avvalorare questa sensazione e
si basano su alcune mail di richiesta esplicita di cambio di etichetta,
circolate in azienda.
Non solo. A carico della Galbani c’è l’invio di croste
di gorgonzola rinominate come “residuo di produzione lattiero casearia per
trasformazione”. Già nel 2002, infatti, il disciplinare relativo al formaggio
gorgonzola Dop stabiliva che la crosta non può essere destinata a prodotti
commestibili, perché potenzialmente portatrice del batterio listeria, in grado
di causare meningite in soggetti immunodepressi. Deve dunque essere smaltita, ma
non può essere riciclata neppure per mangimi animali. Eppure, dai documenti
acquisiti dagli inquirenti risultano arrivate alla Tradel decine di tonnellate
di croste di gorgonzola, rinominate per aggirare l’obbligo di smaltimento.
Dal settimanale "Il Salvagente", luglio
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