Il bisogno di utopia e la fine della politica moderna? |
Scritto da Enzo Risso | |
Mar 21 Ottobre 2008 | |
La fine della politica moderna? La contemporaneità porta con sé la fine delle ideologie, delle grandi narrazioni. Il processo, in realtà, non si è sviluppato negli ultimi dieci anni. È un percorso lungo che, come gia segnalava Daniel Bell nel 1950, radica, da un lato, nel disallineamento tra le promesse contenute nel “verbo” ideologico e i problemi reali della società e, dall’altro lato, nell’omologazione dogmatica dei percorsi proposti. A questi fattori, specie per quanto riguarda l’ideologia socialisteggiante e comunisteggiante, si va ad aggiungere lo svuotamento della spinta verso il fine, rappresentato dal welfare state, che ha reso anocronistica, nella politica socialdemocratica, la scelta del cambiamento radicale della società. Quella che si è andata affermando nel corso degli ultimi 50 anni è stata, sul fronte dei fini e dell’agire politico, una tendenza che possiamo definire “rinunciataria” (come la chiamerebbe Rorty). Una politica che ha scambiato i mezzi per fini e che ha rinunciato allo sviluppo di una critica permanente della società, per lo sviluppo di scelte e azioni contingenti. Si tratta di una politica dal pensiero “corto”, che ha smesso di essere risposta ai bisogni cogenti, sempre più complessi e articolati, della contemporaneità postmoderna. La politica, infatti, radica le proprie risorse e la propria funzione, nella capacità di fornire risposte. Ovvero, nella attitudine a comprendere le nuove forme di oppressione, diversificazione, disarmonizzazione e disallineamento sociale e a fornire loro soluzioni; nella tendenza a individuare nuovi diritti e a costruire percorsi di avvicinamento e riconoscimenti di questi; nella volontà di essere e rimanere spazio pubblico, arena di confronto degli interessi collettivi e non mera rappresentazione delle sollecitudini e pressioni corporative o di singole parti. La politica trova ragione nella funzione specifica di articolare e coniugare le domande contraddittorie (come, ad esempio, quella di più libertà e più sicurezza), di ricomporle in un quadro capace non solo di contenere le diverse esigenze, ma di superarle in una dimensione articolata, equilibrata e simmetrica. La tendenza alla depoliticizzazione e all’estetizzazione della politica, non sono solo il frutto di un processo di individualizzazione e di ritiro delle coscienze, sono il portato di un fallimento: quello della politica e della sua capacità di comprendere la società e le sue trasformazioni; quello di aver lasciato che al posto delle ideologie, si insediasse, nel mondo politico, il linguaggio, la logica e la filosofia del mercato e del marketing. Si è lasciato che i concetti del mercatismo sostituissero, in politica, il ruolo della compenetrazione e del confronto di idee, visioni e progetti. Dice lo scrittore Claudio Magris, “In ogni epoca c’è una cultura predominante che tende a imporre la propria visione del mondo e il proprio linguaggio. […] Oggi tale egemonia appare esercitata dall’economia; l’Università, l’ospedale, l’intero paese diventano un’azienda. […] Questa invadenza totalizzante è sospetta, come ogni formula totalitaria che tenda a inglobare e dunque a fondere e confondere ogni cosa”. Fine delle ideologie. Affermazione del pensiero “corto”. Estetizzazione e mercatizzazione della politica. Frammentazione dei bisogni e delle risposte. Debolezza dei movimenti e loro incedere di breve durata. Crisi dei partiti e della forma partito. Sono tutti fenomeni di cui si è discusso a lungo. Ma qual è la loro portata storica e complessiva? La risposta, in qualche modo e suo malgrado, l’ha fornita lo storico Francis Fukuyama, il quale nel 1989 ha decretato la vittoria del mercatismo, dell’homo oeconomicus, sull’uomo politico. Lo storico americano, di origini giapponesi, afferma che la storia, intesa come evoluzione lineare, è terminata, è giunta al capolinea poiché è terminata l’aspirazione a sviluppare alterative alla democrazia liberale . Il punto nodale, se vogliamo, è proprio quello toccato da Fukuyama. La contemporaneità della politica ha perso ogni sua capacità immaginifica. Ha perso la proiezione, l’alternativa. Ha perso il pensiero critico, la necessità di osservare, analizzare, capire, delineare, criticare e, quindi, intervenire per cambiare. Quello cui assistiamo non è la fine ella storia, bensì la fine della politica moderna, con i suoi partiti, le sue proiezioni, le sue forme istituzionalizzate di azione e contestazione. Il problema di fondo non è quello di dare risposte alle singole trasformazioni, ma individuare un percorso, una via d’uscita. Il ritorno all’utopia Il filosofo Slavoj Zizek afferma che oggi è più che mai necessario mantenere aperto “lo spazio utopico di un’alternativa globale” al sistema contemporaneo. E a chi gli fa notare che ne mancano i contenuti, il filosofo ribadisce la necessità lasciare aperta la porta dell’utopia “anche se tale spazio deve restare vuoto in attesa di un contenuto” . Il termine utopia, come si ricava dalla sua matrice greca (è coniato sulle parole ou – “non” – e topos – “luogo”) indica una specie di non-luogo, un qualcosa che non esiste, ma presuppone anche che, chi professa un’ipotesi utopica abbia fede nella propria immaginazione politica, creda “che il migliore dei mondi non sia soltanto pensabile, ma anche possibile” . Nella dimensione politica moderna, il termine “utopia” ha assunto un valore negativo. Essa è divenuta sinonimo di astrazione, di favola raccontata. Spesso, inoltre, si è sovrapposto questo termine con quello di ideologia. Un esempio tipico è offerto da Mannheim, il quale assimila il termine utopia a quello di ideologia. Per il sociologo tedesco esistono le ideologie rivoluzionarie (il comunismo e le idee libertarie), che sono per lui le utopie, e le ideologie vere e proprie, ovvero quelle conservatrici . Negli ultimi 50 anni il dibattito sull’utopia si è sempre più delineato non tanto come capacità profetica, di progettare una società in cui le persone siano felici (in quanto vedono soddisfatte le loro aspirazioni correnti), quanto la capacità di avviare un processo di mutamento permanente della società che piaccia a chi la vive. Una società non per gli uomini per come sono oggi, ma per coloro che la vivranno. Forse, per rimettere in piedi, su un binario meno astratto, il tema dell’utopia e per comprenderne il valore nella contemporaneità post-ideologica e post-politica, è utile riallacciarsi all’interpretazione classica di utopia fornita da Bloch e da Wells, o anche da Marcuse, in cui il percorso dell’utopia è superamento della rassegnazione per la contemporaneità e per la società come è, al contempo, non è il disegno astratto futuribile, ma si radica in una proiezione massimizzata degli elementi positivi della società in cui si vive. Il bisogno di utopia è, quindi, necessità di tornare alla critica della società di oggi, dei suoi fondamenti sociali ed economici, del suo sistema di vita e di quotidianità, è comprendere e scandagliare i fattori di crisi e di malessere, per cercare di delineare un percorso di fuoriuscita. È la negazione di qualunque forma di rassegnazione per l’immutabilità del contesto ed è la volontà di tornare a costruire una politica incardinata su pensieri “lunghi”, mirando a una palingenesi del modo di vivere quotidiano delle persone e non solo della società e dei suoi macro-sistemi. Si tratta di pensare alla politica non come “storia promessa”, né al fine come certo e ineluttabile, iscritto nella forza delle cose, bensì come un processo costante e permanente di trasformazione delle storture e di edificazione di nuovi equilibri rispettosi delle libertà delle persone e delle loro esigenze umane più complesse. Il benessere cui tendere non è solo quello materiale, è una concezione di felicità che non si può definire a priori, bensì come movimento costante a limare e limitare le contraddizioni, le distonie, i conflitti e le precarietà e incertezze. Il bisogno di utopia è l’urgenza di pensare e lavorare per migliorare e trasformare la società di oggi, colpendo e incidendo sui suoi fattori distorsivi. Essa fonda non un progetto riformistico classico, ma delinea la capacità di costruire un percorso dal basso, fondato sulle genti e le persone, volto a rivoluzionare il modo di vivere e produrre, lavorare e stare insieme. Si parte dall’oggi, per guardare al domani. |
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