LA SCIENZA RIVELA NUOVE SCOPERTE SUGLI ESORDI DELLA CIVILTÀ INDIANA
Il numero di giugno 2008 della prestigiosa rivista Science (la più
accreditata pubblicazione scientifica, riconosciuta dalla scienza ufficiale
come suo organo competente e pienamente attendibile) contiene un articolo
intitolato “Unmasking the Indus”, curato da Andrew Lawler, di ben dieci
pagine (vol. 320, pagg. 1276-1285).
In esso si afferma che l’opinione scientifica in merito alla civiltà
dell’Indo-Sarasvati — in relazione alle altre due grandi civiltà antiche sue
contemporanee (la mesopotamica e l’egiziana) — è mutata radicalmente in
questi ultimissimi anni e sarà destinata a mutare ancora grazie alle
scoperte più recenti e alle ricerche ancora in corso, obbligando il mondo
scientifico ufficiale a una attenta e importantissima riconsiderazione.
Tutto parte dalla presa di coscienza del fatto che la civiltà indiana
rappresenta il centro di una vera e propria «fucina commerciale e tecnlogica
già nel terzo millennio a.C.». Di conseguenza, una nuova conoscenza e
comprensione della civiltà dell’Indo-Sarasvati sta per emergere, che
potrebbe condurre addirittura alla scoperta delle radici dell’attuale
civiltà umana (convinzione che, teniamo a sottolinearlo, Tommaso Iorco
sostiene nel libro DAI VEDA A KALKI, pubblicato nel 2003 — cinque anni prima
delle clamorose rivelazioni di Science — da aria nuova edizioni).
L’importanza di queste affermazioni merita tutta la nostra attenzione: è la
prima volta che il mondo scientifico pronuncia una ammissione di queste
proporzioni nei confronti della storia dell’India dei primordi. Ciò è potuto
avvenire — sostiene lo stesso articolo — a causa di importanti scoperte
archeologiche (destinate a ampliarsi ulteriormente nell’immediato futuro)
probanti e non suscettibili a fraintendimenti.
Come ben sappiamo, l’archeologia, diversamente dall’attuale linguistica, è
una scienza esatta, le cui fondamenta sono solidamente stabilite da
parecchio tempo. E le conoscenze archeologiche non sono soltanto in
espansione, ma stanno cambiando la mentalità e l’attitudine dei ricercatori
stessi. Questo, sicuramente, anche grazie alla caduta di alcune barriere
culturali (sciovinismo e pregiudizi eretti a dogmi) che un secolo fa
sembravano insormontabili e indiscutibili.
L’articolo si apre constatando l’esistenza di diversi reperti archeologici
dell’antico Egitto (piramidi, templi, mummie, ecc.) e dell’antica
Mesopotamia (la superba epopea di Gilgamesh, oltre a tombe e altri reperti),
in grado di permettere una sufficiente valutazione della complessità delle
rispettive culture e la loro datazione. Ma non si era ancora data la giusta
importanza ai reperti emersi dagli scavi compiuti in India (e tuttora in
corso). Finché, in tempi recentissimi, le ricerche archeologiche compiute
nella zona di confine fra India e Pakistan ha permesso una svolta radicale
alle ricerche e alle considerazioni da esse derivate. Al punto da
riconoscere che non soltanto l’India antica va posta in una posizione
culturale assolutamente paritaria all’antichità dell’Egitto e della
Mesopotamia del terzo millennio a.C., ma addirittura se ne riconosce la
superiorità, per vastità di area e popolazione coinvolta, per conoscenze
ingegneristiche e tecnologiche e, non da ultimo, per capacità di espansione
e diffusione del proprio raffinato grando di civiltà in altre aree della
terra (in Afghanistan e in Iraq le prove sono particolarmente numerose) e,
ancora, per la duttilità della sua cultura, capace di adattarsi alle varie
situazioni dando vita a una grande varietà di differenziazioni. «Questa idea
che la cultura hindu fosse un blocco monolotico è una totale assurdità;
esiste una enorme quantità di variazioni», efferma l’archeologo Louis Flan,
dell’università di New York, che ha operato in Pakistan per diversi anni.
Di grande rilevanza anche la recente datazione dei vari siti (anche di
quelli studiati fin dalla prima metà del Novecento), che impone di arretrare
notevolmente la loro epoca: sempre secondo la rivista Science, la città di
Harappa potrebbe essere di mille anni più vecchia di quanto finora supposto,
mentre per Mohenjo Daro occorre retrodatare in modo assai più sensibile!
Purtroppo, nell’area in questione, alcuni problemi politici impediscono un
pieno e fruttuoso interscambio fra gli studiosi. Come l’autore dell’articolo
osserva, «ottenere una nuova immagine complessiva è ostacolato dai contrasti
esistenti fra India e Pakistan. Molti archeologi stranieri si tengono
lontani dal Pakistan a causa della sua instabilità politica, mentre il
governo indiano tende a scoraggiare le collaborazioni con team di archeologi
europei e americani, proprio a causa delle manipolazioni che nel passato gli
studiosi occidentali hanno compiuto ai danni dell’India, per motivi
colonialistici e interessi economici vari.
Una guerra fredda virutale rende i due paesi divisi e impedisce agli
scienziati dei relativi paesi di scambiarsi le conoscenze e ai siti di
essere accessibili a tutti gli studiosi. L’articolo riporta a titolo di
esempio le traversie di due archeologi, Farzand Masih della Panjab
University, Lahore, occupato nelle operazioni di scavi a Ganweriwala, in
Pakistan, e Vasant Shinde del Deccan College (a Puna), impegnato a Farmana,
in India, operanti ad appena 200 chilometri di distanza l’uno dall’altro ma
impossibilitati a cooperare fra loro a causa dei contrasti politici
esistenti fra i due paesi.
Una delle novità più sconvolgenti è rappresentata dalla scoperta, compiuta
da un gruppo di ricercatori francesi, del sito di Mehrgar che, citando
ancora l’articolo, «risale al 7000 a.C., posto fra le colline del
Beluchistan sulla zona occidentale della vallata dell’Indo», in una zona ora
desertica che gli studiosi ritenevano fosse sempre stata sostanzialmente
disabitata (mentre, fra l’altro, centinaia di altri siti più piccoli stanno
emergendo dagli scavi). Questa città è la dimostrazione probante del fatto
che la civiltà indiana si è formata in modo indigeno e che non è avvenuta
alcuna invasione di popoli bianchi civilizzatori, come per secoli gli
indologi ci avevano invece abituato a credere.
Ancora una volta il libro Dai Veda a Kalki dimostra di poggiare le proprie
argomentazioni su fatti concreti e non su dubbie congetture. Tommaso Iorco
aveva già avuto modo di esaminare attentamente parecchio materiale
attestante le ricerche archeologiche compiute negli ultimi trent’anni del XX
secolo e ha voluto offrine in anticipo le rivoluzionarie scoperte contenute
nel suo libro.
«Gli esseri umani hanno vissuto su queste pianure e non soltanto sui rilievi
del Beluchistan, per diversi millenni precedentemente l’ascesa della civiltà
dell’Indo», afferma l’archeologo Qasid Mallah dell’università di Shah Abdul
Latif in Khairpur. Infatti, prima della cosiddetta civiltà dell’Indo
esisteva in India una civiltà detta ‘Sarasvati’ (si veda, nel citato
libroDai Veda a Kalki, la descrizione dei tale distinzione).
Ovviamente restano parecchi misteri da svelare, in particolare di ordine
linguistico, tuttavia vi è una sostanziale differenza rispetto alle
concezioni sostenute dagli indologi: mentre fino alla prima metà del
ventesimo secolo la civiltà antica indiana si limitava ai due siti di
Mohenjo Daro e di Harappa (entrambe localizzate nei pressi dell’Indo),
adesso sono stati rinvenuti un migliaio di altri siti, di cui almeno cinque
hanno dimensioni simili o addirittura superiori ai due più noti. E questi
siti rivelano fra l’altro nuove sfaccettature della vita dei primi abitatori
dell’India, incluse distinzioni gerarchiche e differenze regionali che
attestano una sostanziale unità culturale ma non una rigida
irregimentazione: il principio ispiratore pare sia sempre stato quello di
favorire l’unità attraverso il rispetto delle diversità. Gli studiosi sono
affascinati dal sistema organico e vivo di cooperazione esistente nella
struttura sociale dell’India antica, anche nel caso della fondazione dei
grandi imperi. Inoltre, gli scavi archeologici non hanno riscontrato alcun
reperto di armi o di sistemi difensivi. E nemmeno sculture di sovrani: solo
soggetti sacri; le personalità effimere non erano considerate degne di
essere scolpite, così come gli stessi nomi degli artisti non venivano
ricordati, né sulle sculture, in conformità con la filosofia indiana, per
cui l’ego deve essere abbandonato. È anche interessante notare quanto i
sovrani dell’India più antica rispettassero ogni forma di credenza. Per
esempio, dai regni del secondo secolo a.C. e fino al 5 secolo d.C., l’arte
buddhista venne realizzata sotto le dinastie hindu, con il benestare dei
sovrani, sebbene essi non fossero buddhisti. Oppure, poteva capitare che un
re adorava Shiva o Vishnu, mentre la regina sua mogie fosse devota di Buddha
o di Mahavita o di una divinità diversa da quella scelta dal marito.
Un altro aspetto particolarmente interessante dell’articolo riguarda il
commercio internazionale. Le evidenze accumulate nel corso delle ultime
ricerche testimoniano una ricchissima attività di commercio al di fuori
dell’area in questione, verso l’Asia centrale, l’Iraq, l’Afghanistan, fin
dai tempi più remoti. Piccoli oggetti facilmente trasportabili, come collane
e vasellame, sono stati rinvenuti lungo l’intero territorio iraniano e,
oltreoceano, in Mesopotamia. Tali da dimostrare in modo incontrovertibile
legami culturali che l’India intratteneva da tempi antichissimi con
l’attuale Iran (ovvero l’antica Persia) e con la Mesopotamia. «Questi uomini
erano grandi viaggiatori, non vi è ombra di dubbio», aggiunge il prof.
Gregory Possehl, dell’università di Pennsylvania, che ha rinvenuto vasellame
del Gujarat in un sito a Oman. Mentre l’archeologo Nilofer Shaikh,
vicerettore dellaLatif University, si spinge oltre ancora, azzardando
l’ipotesi secondo cui «gli abitatori dell’antica India controllavano il
commercio. Detenevano il controllo delle cave, delle principali vie di
comunicazione e conoscevano molto bene la posizione geografica dei vari
mercati». Questa convinzione gli deriva dal fatto che la quantità di
ritrovamenti di manufatti indiani in Mesopotamia sono in misura
straordinariamente superiore agli oggetti di fabbricazione mesopotamica
ritrovati nei siti indiani.
L’articolo di Science ammette che, in tutta evidenza, vi erano mercanti e
diplomatici che vivevano stabilmente all’estero, mentre vi era un certo
numero di viaggatori che andava e veniva, facendo da spola. Fra gli esempi
in tal senso forniti dalla rivista, viene citata una iscrizione mesopotamica
risalente al III millennio a.C. in cui si fa riferimento a un certo
Shu-ilishu, un interprete proveniente da Meluhha (ovvero dall’India), che il
prof. Wright della New York Universitydocumenta nel suo nuovo libro, in
corso di stampa. Vi sono inoltre prove di un villaggio di mercanti indiani
nell’Iraq meridionale risalente a un’epoca oscillante fra il 2114 e il 2004
a.C.
L’articolo si sofferma infine su come la politica e la religione cerchino
talvolta di minare le basi scientifiche di tali scoperte, sollevando una
serie di problematiche discusse piuttosto regolarmente presso il Parlamento
e presso i tribunali della Corte Suprema dell’India. Da segnalare anche le
bande di ladri che cercano di trafugare tesori da tali siti per venderli a
ricchi collezionisti privi di scrupoli.
L’articolo di Science offre molte altre informazioni. Consigliamo vivamente
la lettura dell’articolo originale a chi è in grado di farlo, oltre a
rimandare alle recensioni, alle informazioni, agli estratti riguardanti il
libro Dai Veda a Kalki più volte citato e contenute in questo stesso sito —
basta cliccare sul seguente link:
VedaKalki.html>
DAI VEDA A KALKI
Il numero di giugno 2008 della prestigiosa rivista Science (la più
accreditata pubblicazione scientifica, riconosciuta dalla scienza ufficiale
come suo organo competente e pienamente attendibile) contiene un articolo
intitolato “Unmasking the Indus”, curato da Andrew Lawler, di ben dieci
pagine (vol. 320, pagg. 1276-1285).
In esso si afferma che l’opinione scientifica in merito alla civiltà
dell’Indo-Sarasvati — in relazione alle altre due grandi civiltà antiche sue
contemporanee (la mesopotamica e l’egiziana) — è mutata radicalmente in
questi ultimissimi anni e sarà destinata a mutare ancora grazie alle
scoperte più recenti e alle ricerche ancora in corso, obbligando il mondo
scientifico ufficiale a una attenta e importantissima riconsiderazione.
Tutto parte dalla presa di coscienza del fatto che la civiltà indiana
rappresenta il centro di una vera e propria «fucina commerciale e tecnlogica
già nel terzo millennio a.C.». Di conseguenza, una nuova conoscenza e
comprensione della civiltà dell’Indo-Sarasvati sta per emergere, che
potrebbe condurre addirittura alla scoperta delle radici dell’attuale
civiltà umana (convinzione che, teniamo a sottolinearlo, Tommaso Iorco
sostiene nel libro DAI VEDA A KALKI, pubblicato nel 2003 — cinque anni prima
delle clamorose rivelazioni di Science — da aria nuova edizioni).
L’importanza di queste affermazioni merita tutta la nostra attenzione: è la
prima volta che il mondo scientifico pronuncia una ammissione di queste
proporzioni nei confronti della storia dell’India dei primordi. Ciò è potuto
avvenire — sostiene lo stesso articolo — a causa di importanti scoperte
archeologiche (destinate a ampliarsi ulteriormente nell’immediato futuro)
probanti e non suscettibili a fraintendimenti.
Come ben sappiamo, l’archeologia, diversamente dall’attuale linguistica, è
una scienza esatta, le cui fondamenta sono solidamente stabilite da
parecchio tempo. E le conoscenze archeologiche non sono soltanto in
espansione, ma stanno cambiando la mentalità e l’attitudine dei ricercatori
stessi. Questo, sicuramente, anche grazie alla caduta di alcune barriere
culturali (sciovinismo e pregiudizi eretti a dogmi) che un secolo fa
sembravano insormontabili e indiscutibili.
L’articolo si apre constatando l’esistenza di diversi reperti archeologici
dell’antico Egitto (piramidi, templi, mummie, ecc.) e dell’antica
Mesopotamia (la superba epopea di Gilgamesh, oltre a tombe e altri reperti),
in grado di permettere una sufficiente valutazione della complessità delle
rispettive culture e la loro datazione. Ma non si era ancora data la giusta
importanza ai reperti emersi dagli scavi compiuti in India (e tuttora in
corso). Finché, in tempi recentissimi, le ricerche archeologiche compiute
nella zona di confine fra India e Pakistan ha permesso una svolta radicale
alle ricerche e alle considerazioni da esse derivate. Al punto da
riconoscere che non soltanto l’India antica va posta in una posizione
culturale assolutamente paritaria all’antichità dell’Egitto e della
Mesopotamia del terzo millennio a.C., ma addirittura se ne riconosce la
superiorità, per vastità di area e popolazione coinvolta, per conoscenze
ingegneristiche e tecnologiche e, non da ultimo, per capacità di espansione
e diffusione del proprio raffinato grando di civiltà in altre aree della
terra (in Afghanistan e in Iraq le prove sono particolarmente numerose) e,
ancora, per la duttilità della sua cultura, capace di adattarsi alle varie
situazioni dando vita a una grande varietà di differenziazioni. «Questa idea
che la cultura hindu fosse un blocco monolotico è una totale assurdità;
esiste una enorme quantità di variazioni», efferma l’archeologo Louis Flan,
dell’università di New York, che ha operato in Pakistan per diversi anni.
Di grande rilevanza anche la recente datazione dei vari siti (anche di
quelli studiati fin dalla prima metà del Novecento), che impone di arretrare
notevolmente la loro epoca: sempre secondo la rivista Science, la città di
Harappa potrebbe essere di mille anni più vecchia di quanto finora supposto,
mentre per Mohenjo Daro occorre retrodatare in modo assai più sensibile!
Purtroppo, nell’area in questione, alcuni problemi politici impediscono un
pieno e fruttuoso interscambio fra gli studiosi. Come l’autore dell’articolo
osserva, «ottenere una nuova immagine complessiva è ostacolato dai contrasti
esistenti fra India e Pakistan. Molti archeologi stranieri si tengono
lontani dal Pakistan a causa della sua instabilità politica, mentre il
governo indiano tende a scoraggiare le collaborazioni con team di archeologi
europei e americani, proprio a causa delle manipolazioni che nel passato gli
studiosi occidentali hanno compiuto ai danni dell’India, per motivi
colonialistici e interessi economici vari.
Una guerra fredda virutale rende i due paesi divisi e impedisce agli
scienziati dei relativi paesi di scambiarsi le conoscenze e ai siti di
essere accessibili a tutti gli studiosi. L’articolo riporta a titolo di
esempio le traversie di due archeologi, Farzand Masih della Panjab
University, Lahore, occupato nelle operazioni di scavi a Ganweriwala, in
Pakistan, e Vasant Shinde del Deccan College (a Puna), impegnato a Farmana,
in India, operanti ad appena 200 chilometri di distanza l’uno dall’altro ma
impossibilitati a cooperare fra loro a causa dei contrasti politici
esistenti fra i due paesi.
Una delle novità più sconvolgenti è rappresentata dalla scoperta, compiuta
da un gruppo di ricercatori francesi, del sito di Mehrgar che, citando
ancora l’articolo, «risale al 7000 a.C., posto fra le colline del
Beluchistan sulla zona occidentale della vallata dell’Indo», in una zona ora
desertica che gli studiosi ritenevano fosse sempre stata sostanzialmente
disabitata (mentre, fra l’altro, centinaia di altri siti più piccoli stanno
emergendo dagli scavi). Questa città è la dimostrazione probante del fatto
che la civiltà indiana si è formata in modo indigeno e che non è avvenuta
alcuna invasione di popoli bianchi civilizzatori, come per secoli gli
indologi ci avevano invece abituato a credere.
Ancora una volta il libro Dai Veda a Kalki dimostra di poggiare le proprie
argomentazioni su fatti concreti e non su dubbie congetture. Tommaso Iorco
aveva già avuto modo di esaminare attentamente parecchio materiale
attestante le ricerche archeologiche compiute negli ultimi trent’anni del XX
secolo e ha voluto offrine in anticipo le rivoluzionarie scoperte contenute
nel suo libro.
«Gli esseri umani hanno vissuto su queste pianure e non soltanto sui rilievi
del Beluchistan, per diversi millenni precedentemente l’ascesa della civiltà
dell’Indo», afferma l’archeologo Qasid Mallah dell’università di Shah Abdul
Latif in Khairpur. Infatti, prima della cosiddetta civiltà dell’Indo
esisteva in India una civiltà detta ‘Sarasvati’ (si veda, nel citato
libroDai Veda a Kalki, la descrizione dei tale distinzione).
Ovviamente restano parecchi misteri da svelare, in particolare di ordine
linguistico, tuttavia vi è una sostanziale differenza rispetto alle
concezioni sostenute dagli indologi: mentre fino alla prima metà del
ventesimo secolo la civiltà antica indiana si limitava ai due siti di
Mohenjo Daro e di Harappa (entrambe localizzate nei pressi dell’Indo),
adesso sono stati rinvenuti un migliaio di altri siti, di cui almeno cinque
hanno dimensioni simili o addirittura superiori ai due più noti. E questi
siti rivelano fra l’altro nuove sfaccettature della vita dei primi abitatori
dell’India, incluse distinzioni gerarchiche e differenze regionali che
attestano una sostanziale unità culturale ma non una rigida
irregimentazione: il principio ispiratore pare sia sempre stato quello di
favorire l’unità attraverso il rispetto delle diversità. Gli studiosi sono
affascinati dal sistema organico e vivo di cooperazione esistente nella
struttura sociale dell’India antica, anche nel caso della fondazione dei
grandi imperi. Inoltre, gli scavi archeologici non hanno riscontrato alcun
reperto di armi o di sistemi difensivi. E nemmeno sculture di sovrani: solo
soggetti sacri; le personalità effimere non erano considerate degne di
essere scolpite, così come gli stessi nomi degli artisti non venivano
ricordati, né sulle sculture, in conformità con la filosofia indiana, per
cui l’ego deve essere abbandonato. È anche interessante notare quanto i
sovrani dell’India più antica rispettassero ogni forma di credenza. Per
esempio, dai regni del secondo secolo a.C. e fino al 5 secolo d.C., l’arte
buddhista venne realizzata sotto le dinastie hindu, con il benestare dei
sovrani, sebbene essi non fossero buddhisti. Oppure, poteva capitare che un
re adorava Shiva o Vishnu, mentre la regina sua mogie fosse devota di Buddha
o di Mahavita o di una divinità diversa da quella scelta dal marito.
Un altro aspetto particolarmente interessante dell’articolo riguarda il
commercio internazionale. Le evidenze accumulate nel corso delle ultime
ricerche testimoniano una ricchissima attività di commercio al di fuori
dell’area in questione, verso l’Asia centrale, l’Iraq, l’Afghanistan, fin
dai tempi più remoti. Piccoli oggetti facilmente trasportabili, come collane
e vasellame, sono stati rinvenuti lungo l’intero territorio iraniano e,
oltreoceano, in Mesopotamia. Tali da dimostrare in modo incontrovertibile
legami culturali che l’India intratteneva da tempi antichissimi con
l’attuale Iran (ovvero l’antica Persia) e con la Mesopotamia. «Questi uomini
erano grandi viaggiatori, non vi è ombra di dubbio», aggiunge il prof.
Gregory Possehl, dell’università di Pennsylvania, che ha rinvenuto vasellame
del Gujarat in un sito a Oman. Mentre l’archeologo Nilofer Shaikh,
vicerettore dellaLatif University, si spinge oltre ancora, azzardando
l’ipotesi secondo cui «gli abitatori dell’antica India controllavano il
commercio. Detenevano il controllo delle cave, delle principali vie di
comunicazione e conoscevano molto bene la posizione geografica dei vari
mercati». Questa convinzione gli deriva dal fatto che la quantità di
ritrovamenti di manufatti indiani in Mesopotamia sono in misura
straordinariamente superiore agli oggetti di fabbricazione mesopotamica
ritrovati nei siti indiani.
L’articolo di Science ammette che, in tutta evidenza, vi erano mercanti e
diplomatici che vivevano stabilmente all’estero, mentre vi era un certo
numero di viaggatori che andava e veniva, facendo da spola. Fra gli esempi
in tal senso forniti dalla rivista, viene citata una iscrizione mesopotamica
risalente al III millennio a.C. in cui si fa riferimento a un certo
Shu-ilishu, un interprete proveniente da Meluhha (ovvero dall’India), che il
prof. Wright della New York Universitydocumenta nel suo nuovo libro, in
corso di stampa. Vi sono inoltre prove di un villaggio di mercanti indiani
nell’Iraq meridionale risalente a un’epoca oscillante fra il 2114 e il 2004
a.C.
L’articolo si sofferma infine su come la politica e la religione cerchino
talvolta di minare le basi scientifiche di tali scoperte, sollevando una
serie di problematiche discusse piuttosto regolarmente presso il Parlamento
e presso i tribunali della Corte Suprema dell’India. Da segnalare anche le
bande di ladri che cercano di trafugare tesori da tali siti per venderli a
ricchi collezionisti privi di scrupoli.
L’articolo di Science offre molte altre informazioni. Consigliamo vivamente
la lettura dell’articolo originale a chi è in grado di farlo, oltre a
rimandare alle recensioni, alle informazioni, agli estratti riguardanti il
libro Dai Veda a Kalki più volte citato e contenute in questo stesso sito —
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